Pochi giorni dopo il tradizionale appuntamento con lo
spettacolo della maratona di New York, quest’anno condizionata a quanto pare da
fastidiose e gelide folate di vento su buona parte del percorso, tengono banco
le disamine tecniche sullo svolgimento della gara. I bei duelli di testa, sia
al maschile che al femminile, hanno emozionato il numeroso pubblico lungo il
tracciato ed i telespettatori davanti alla tv, ennesima conferma di come
l’atletica, al di là di super prestazioni e rincorse cronometriche, magari
lanciate da sciami di pacemaker, sia comunque fondata sul confronto tra atleti,
sullo scontro diretto. Circostanze che fanno riflettere, soprattutto se il paragone
si estende all’atletica in pista, ad una Diamond League, ad esempio, che sempre
con più difficoltà riesce a mettere uno contro l’altro i numeri uno delle
rispettive specialità, nelle tante tappe sparse per il mondo.
Ma stavolta non è questo il punto che vorrei affrontare,
quanto un aspetto relativo alla maratona maschile in Europa, emerso nella
giornata conclusiva di una stimolante tre giorni di incontri tecnici
nell’ambito dell’International Festival of Athletics Coaching (IFAC) a Roma, nello
scorso weekend.
Tra i tanti stimati relatori presenti ha concesso infatti un
suo contributo anche Malcolm Brown, rinomato tecnico attualmente responsabile
della squadra britannica di triathlon, quella, tanto per intenderci, che fece
incetta di medaglie alle Olimpiadi di Londra 2012. L’argomento era relativo al
ruolo dell’allenatore nella costruzione dei successi dei propri atleti,
incentrato naturalmente sulla sua esperienza nel mezzofondo prima e nel
triathlon poi, rappresentando con chiarezza i fattori che determinano
l’affermazione ad alti livelli di un atleta professionista. Brown aveva introdotto
il suo intervento focalizzando sulla penuria di risultati nella maratona
europea maschile contemporanea, all’assenza di maratoneti in grado non solo di
competere per un podio nelle grandi manifestazioni internazionali, ma neanche
di avvicinare in termini cronometrici quanto riuscivano ad ottenere i propri
predecessori continentali non troppi anni fa. Eppure le maratone in Europa sono
tantissime, in Italia addirittura troppe, capaci di catturare enormi masse di
partecipanti, attingendo ad un bacino di praticanti sterminato. Ma allora
perché non emergono i campioni? Motivi diversi, forse la poca voglia di
provarci in una disciplina sempre più dominata dagli atleti africani, oppure
una combinazione di situazioni, difficoltà tecniche, culturali, ambientali che
finiscono per limitare o tenere lontani dalla maratona buoni prospetti.
Ma quanto è profonda la crisi della maratona europea
maschile? Lo spunto fornito da Brown mi ha incuriosito a tal punto che ho
pensato di tirar giù qualche statistica sugli ultimi 10 anni di maratona,
ovverosia il periodo che ha visto manifestarsi il calo irrefrenabile dei nostri
maratoneti. Ecco i risultati, con tabella e grafici ad illustrare i fatti:
2004-2014, i non
africani nei migliori 100 di ogni anno: primo aspetto indagato è stato il
numero di atleti “non africani” tra le migliori 100 prestazioni di ogni
stagione, dal 2004, anno dell’oro olimpico di Stefano Baldini, alla stagione in
corso e virtualmente quasi conclusa. Ebbene da un gruppo di circa 40 unità “non
africane” del 2004, ossia il 40% tra le prime 100 prestazioni, si è passati nel
2014 ad appena 6 presenze, vale a dire un calo dell’85% in 10 anni.
2004-2014, maratoneti
europei: gli atleti europei compresi nelle migliori 100 prestazioni
dell’anno nel 2004 erano 15, di cui oltre la metà costituita da atleti italiani,
mentre ad oggi nelle liste mondiali sono presenti solo 2 maratoneti europei. In
realtà il calo europeo non si discosta molto da quello evidenziato per le
presenze “non africane”, rasentando circa l’87%, segno evidente che l’entità
del fenomeno è su scala mondiale.
2004-2014, gli
italiani: se il cerchio si stringe ai soli italiani, si nota come nel 2004
dello storico oro olimpico di Stefano Baldini vi siano in totale 8 presenze
italiane tra le migliori 100 prestazioni. Oltre a Baldini, che da solo vanta
due presenze, vi erano anche Alberico Di Cecco (poi squalificato per doping),
Danilo Goffi (2), Ruggero Pertile (2), Migidio Bourifa. Quel plotoncino di prestazioni
azzurre si è poi dimezzato l’anno seguente, per ridursi a zero nel 2008,
mantenendosi tale sino ad oggi. Quest’anno il miglior italiano è niente meno
che il campione europeo di maratona, Daniele Meucci, affermazione di prestigio,
sia pur relegata da un punto di vista cronometrico al 190° posto nella graduatoria
mondiale. E’ chiaro che per il toscano i margini di miglioramento siano ampi,
tenuto conto del suo “fresco” approccio alla maratona, con solo qualche
sporadico tentativo in passato, e considerato che pochi giorni prima del suo
titolo europeo era stato impegnato anche sui 10.000 metri. Già dalla sua
prossima gara quindi Meucci potrebbe avere l’occasione di invertire almeno
apparentemente la tendenza italiana di questa particolare statistica.
2004-2014, la forbice
di prestazioni: infine ho voluto inquadrare la variazione in termini
cronometrici della migliore prestazione mondiale per ogni anno, così come della
centesima. Ne deriva che in 10 anni il top del mondo è migliorato
costantemente, scendendo da 2h06 fino al primato di quest’anno con 2h02:57.
Vale a dire un calo di oltre 3 minuti, con andamento altalenante. Meno
sensibile ma più costante il miglioramento valutato sulla centesima
prestazione, passata da 2h11:13 a 2h09:07, ossia un paio di minuti, che però
nel 2004 sarebbero bastati per tenere fuori 7 delle 8 prestazioni italiane
precedentemente evidenziate (sarebbe rimasto dentro solo Baldini con il 2h08:37
di Londra, che al momento sarebbe valso l’85° posto). Segno che entrare nella cerchia dei migliori
oggi è molto più difficile, l’Africa corre forte e se la tendenza resta questa,
al di là di qualche sporadico cenno di ripresa, da qui a qualche anno le
maratone potrebbero divenire territorio “off limits” per tutti gli altri. A
meno che… ma esiste davvero un’alternativa a questo scenario?
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