L’ennesimo fracasso mediatico attorno al nome di Justin
Gatlin è arrivato qualche giorno fa per bocca del tedesco Robert Harting. Il possente
discobolo si è infatti autoescluso dalla corsa virtuale per il titolo di atleta
dell’anno assegnato dalla IAAF, pur di non condividere la sua nomination con lo
sprinter statunitense. Motivo? Il solito, ovvero il passato poco pulito di Gatlin,
fatto di una lunga squalifica per essere stato pescato in due occasioni ai
controlli antidoping, quattro anni che sarebbero potuti essere anche gli
originari otto, se non fosse arrivato il consueto atto di clemenza da parte
degli organi sportivi giudicanti.
Prima anfetamine, poi, dopo la conquista di
ori olimpici e mondiali nello sprint ed il conseguimento del primato mondiale
sui 100 con 9.77, viene pescato per testosterone, coinvolto in quella che fu la
mastodontica inchiesta che portò alla squalifica dei vari Tim Montgomery,
Marion Jones e soprattutto il loro tecnico, Trevor Graham. Da qualche anno è
tornato in pista, all’inizio in punta di piedi, poi con il passare delle gare
ha scoperto una seconda giovinezza, da podio nelle grandi rassegne
internazionali, ritagliandosi il ruolo di più pericoloso rivale per sua maestà
Usain Bolt. Nella stagione appena trascorsa, a 32 anni suonati, ha addirittura
ottenuto il meglio di carriera, con successi a raffica e prestazioni
stratosferiche, su tutte il suo “giorno dei giorni” al meeting di Bruxelles,
quando stabiliva la migliore accoppiata di prestazioni su 100 e 200 mai realizzata
al mondo a distanza di poco più di un’ora di distanza, 9.77 e 19.71.
Lui sulla sua questione doping è sempre stato di poche
parole, non ha mai chiaramente ammesso di aver fatto uso di sostanze dopanti né
tanto meno ha lasciato trasparire un pentimento personale, attirandosi antipatie
ed un certo distacco da parte del pubblico oltre che dagli addetti ai lavori.
Intanto qualche dubbio sulle attuali straordinarie prestazioni
dell’americano viene sollevato dagli scienziati, in particolare da un gruppo di
ricerca dell’Università di Oslo, giunti alla conclusione che l’uso di steroidi
può mantenere una certa memoria nei nuclei delle cellule muscolari.
Un articolo
apparso oggi su Athletics Weekly punta il dito sull’inadeguatezza dei periodi
di squalifica per doping, comunemente non superiori a 4 anni, perché sulla base
delle evidenze scientifiche, pare piuttosto inequivocabili, risulta che gli
effetti ormonali in termini “prestativi” possono perdurare nel corpo umano fino
anche a 10 anni. Ma allora, Gatlin e tanti altri colleghi riammessi in attività
dopo periodi di squalifica per uso di steroidi (vedi Tyson Gay o Dwain
Chambers, tanto per fare due nomi celebri), sono da considerare virtualmente ancora
dopati anche dopo aver pagato per i loro errori e pur non facendo più uso di sostanze dopanti? A tal proposito, anche Sandro
Donati, il più illustre esperto italiano di doping, già in tempi non sospetti
sollevava la questione di quanto rimangano “dopati” gli atleti beccati ai controlli,
a seguito della permanenza degli effetti dovuti a modificazioni di tipo
ormonale.
Tanto lavoro per i massimi organismi sportivi
internazionali, per accrescere la credibilità dello sport ed allontanare i
fantasmi del doping. In molti insistono sull’applicazione di squalifiche più
lunghe ed esemplari, alcuni le vorrebbero a vita, sarà questo il prossimo passo
della lotta al doping?
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