Niente paura, primo al mondo, ancora una volta al Bird’s
Nest, come nel 2008. Usain Bolt ha vinto la sua sfida, probabilmente la più
dura in carriera, sulla pista che 7 anni fa lo consacrò sovrano dell’atletica
mondiale. Un sospiro di sollievo per molti, a cominciare dal nuovo Presidente,
Sebastian Coe, che per sua fortuna scaccia gli imbarazzi di veder salire sul
trono dello sprint un atleta macchiato da una lunga squalifica per doping.
Gatlin-Bolt sui 100 metri era la sfida per eccellenza, il “cattivo” che cerca
di sottrarre l’oro al campione amato da tutti. Gatlin in forma strepitosa, Bolt
in difficoltà, distante da quel picco di carriera che lo faceva decollare ad
ogni abbozzo di progressione.
Le brucianti volate di Justin Gatlin nei turni eliminatori
cercavano di intimorirlo, così mentre l’americano piazzava il più veloce crono
di sempre in una semifinale mondiale, il giamaicano era alle prese con le
incertezze dettate dalle poche competizioni alle spalle in questa stagione.
Capita così che anche un “drive” provato e riprovato chissà quante volte,
rischi di estrometterlo dalla finale, come quell’appoggio mancato da Bolt nei
primi metri della semifinale, che quasi lo manda a tappeto anzitempo. Il
giamaicano invece ritrova le spinte per riacciuffare in testa alla gara il
pupillo del Canada, Andre De Grasse, primi appaiati in 9.96. Stesso tempo lo fa
segnare anche Tyson Gay nella terza semifinale, un centesimo meglio di Asafa
Powell, poi come detto Gatlin. L’americano fa tutto bene, esce dai blocchi come
una palla di cannone, divora il rettilineo in 9.77, mai nessuno meglio di lui
in una semifinale mondiale, il record era proprio di Bolt con il 9.89 di
Berlino. Messaggi in codice, frecciatine tra sprinter, quelle che ti travolgono
se non sei forte nella testa, oltre che nei muscoli.
La finale regala anche l’ingresso in finale ad un cinese,
Bingtian Su, il suo 9.99 è record nazionale, ultimo biglietto utile per poter
partecipare ad una finale mondiale. Un inutile quanto bizzarro intervallo di
pianoforte riempie gli istanti precedenti alla partenza della finale. Bolt è in
quinta corsia, attorniato dalle divise rosse di quattro americani: l’ottimo
Treyvon Bromell e Michael Rodgers sulla sinistra, Tyson Gay e il grande rivale Justin
Gatlin sulla destra. La partenza è buona per il giamaicano, ma Gatlin è
leggermente avanti, poi a metà gara qualcosa cambia. Bolt ritorna sotto, Gatlin
lo sente avvicinarsi, il giamaicano ormai è quasi appaiato. Lo statunitense si
sbilancia, anticipa il tuffo sul traguardo, Bolt al contrario mantiene la sua
azione, pulita, efficace, vincente. Bolt conquista così il suo terzo oro
mondiale, 9.79 per aver ragione dell’avversario, un centesimo meglio di colui
che già annusava il ritorno al vertice della velocità da quel lontano primo
posto mondiale ad Helsinki nel 2005.
Altri tempi, altre situazioni, lì Bolt fece
poco più che una comparsa, neanche 20 anni e frenato da infortuni. Dieci anni
dopo Bolt ha vinto la sua gara più difficile, poco dopo il suo 29° compleanno,
segno che anche il tempo stavolta deve arrendersi alle magie di una leggenda.
A proposito di anni che passano, la finale di Pechino lancia
un paio di bei prospetti di livello mondiale: Andre De Grasse e Treyvon
Bromell, ventenni o quasi, finiscono a pari merito sul terzo gradino del podio
con 9.92. Avversari già diverse volte nel corso dei campionati universitari
americani, i due hanno dimostrato di avere la stoffa per ereditare lo scettro
dello sprint mondiale. Una nota infine in tema di promozione della regina degli
sport: i Mondiali hanno ancora una volta detto che l’atletica è costruita
soprattutto sui confronti diretti, quelli che fanno spettacolo e regalano
emozioni. Nello sprint maschile spesso, anzi quasi sempre, questi mancano nel
corso della stagione dei meeting, questioni da mettere in lista per il nuovo
corso della IAAF.
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